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Venere In Pelliccia – Roman Polanski [2013]

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De adoratione

Venere In Pelliccia

L’arte è finzione oppure è espressione della realtà dell’autore, dunque nuova realtà?

A sue spese [oppure a suo guadagno?] è costretto [o costringe?] a scoprirlo il protagonista del film, regista teatrale che è anche casualmente attore principale delle vicende durante un provino. Thomas, che nel teatro nel cinema diventa Severin von Kusiemski, prima di ritornare a essere Thomas, senza però uscire più dalla parte. Thomas/Severin che non è altri che l’alter-ego di Roman [Polanski]. Le sue voglie, le sue perversioni di quelle già viste nel lontano 1966 quando un sottomesso Donald Pleasance subiva lo stesso processo di travestimento morale da donna, con tanto di rossetto sulle labbra, oppure nel 1976 quando lo stesso Polanski ne L’Inquilino Del Terzo Piano si auto-costringeva a vestirsi da donna per prendere le sembianze della precedente inquilina dell’appartamento.

Insomma, il regista polacco naturalizzato francese non può discostarsi dalle proprie vicende, non può inscenare una vicenda se al suo interno non descrive sé stesso con la maniacalità soltanto meno fobica con la quale un altro mostro sacro come Woody Allen si racconta egocentricamente in ogni suo film. Questo però non è un male, tutt’altro. È grazie all’obiettivo sempre costantemente puntato su stesso che l’autore può creare opere nuove, innovative e mai banali.

In Venere In Pelliccia lo spunto deriva dal famoso omonimo romanzo pubblicato nel 1870 dal Leopold von Sacher-Masoch, divenuto in seguito icona della cultura BDSM. Ma, al pari del Marchese De Sade con il quale ha vari punti in comune, Sacher-Masoch prima ancora che scrivere una storia erotica, traccia, anche involontariamente, linee fondamentali per la comprensione psicologica della natura umana. L’aspetto carnale che ne risulta nei fatti primario è in realtà secondario, è la conseguenza delle distorsioni proprie di ogni singola mente umana.

È a questo che si ancora maggiormente Polanski.

Sua moglie, la mai così brava Emmanuelle Seigner, è mezza nuda per la maggior parte del tempo filmico ma non per questo ci troviamo di fronte a un film erotico e sconcio. È l’aspetto psicologico che, ancora una volta, il regista indaga. La crudeltà [autobiografica] di Carnage è qui ridotta ai minimi termini ed è ancora più tagliente. C’è meno finzione nel rapporto diretto tra i due protagonisti, unici attori in scena, malgrado stiano provando la parte di una piéce teatrale, il coltello affonda dritto nella piaga della coscienza dei personaggi e in particolar modo dell’uomo.

Venere In Pelliccia

Ancora di più, malgrado la divina carnale figura della Seigner sia sempre sotto gli occhi di tutti, protagonista e spettatore, i due non si sfiorano mai, quasi fossimo in un racconto morale di Eric Rohmer. Sono le loro menti che si scontrano, che si strusciano l’un l’altra, che scintillano come pietre focaie. È la mente a essere vivisezionata dall’acutissimo Polanski.

Il risultato? È l’ambivalenza, pardon, l’ambiguità dell’essere umano, il suo credere di essere qualcosa che nella realtà si è ma solamente come maschera per nascondere il nostro vero io, la nostra vera natura animalesca assopita dalla buona morale societaria.

La sottomissione fisica che tanto ha ispirato il Novecento filo-masochista è l’aspetto anti-ascetico di una ricerca del sé che la mente non deve mai smettere di intraprendere.

Ed è qui che risiede la maggior parte della bravura del regista, non solo mantenendo l’ambiguità psicologica ma addirittura esaltandola all’ennesima potenza, riuscendo a ricavare da essa una tensione da thriller hitchcockiano. Lo spettatore sa sin dai primi istanti chi vuole chi e come lo desidera, perché è ovvio che una bella donna bionda e formosa in autoreggenti è il desiderio di un uomo che ha la maggior parte del fascino nella sua cultura, e quasi sicuramente l’attrazione può essere facilmente ricambiata. Dunque, partendo dalla banalità delle sagome iniziali, tutto ruota attorno a come e quando le due energie possano entrare in collisione ed esplodere.

La tensione è data dall’estenuante gioco della seduzione.

E la seduzione è un atto di amore, che porta a fare mosse più calibrate per paura di sbagliare ma anche a farne di avventate accecati dalla passione amorosa. Dunque pare proprio avesse ragione Friedrich Nietzsche quando scrisse che

«nell’amore vi è sempre un po’ di demenza. Ma anche nella demenza vi è sempre un po’ di ragione.»

Anche grazie a questa affermazione dobbiamo dunque accettare qualsiasi comportamento in amore. Non condividerlo per forza, ma prendere atto del fatto che non sia fuori luogo, se fatto in amore.

Ecco cos’è dunque la sottomissione per Sacher-Masoch: amore.

Amore puro. La sua sottomissione autobiograficamente trasferita nel suo Severin non è follia, ma atto di amore puro.

La domanda è: amore per chi?

Venere In Pelliccia

Il sottomesso è tale perché ama l’altro oppure perché ama sé stesso? E chi sottomette, sta davvero dominando oppure è lui il dominato in quanto rispondente alla richiesta del sottomesso che in realtà sta dominando?

Polanski è straordinariamente calato nella questione e non solo non dipana la matassa ammettendo che nell’amore vi è un po’ di demenza e viceversa ma ha la lucidità inaspettata di rileggere davvero la storia di Sacher-Masoch e l’intera interpretazione psicologica che ne deriva, sovvertendo gli elementi in scena, scivolando in una trascendenza mistica dal reale sapore mitologico, ancestrale, che vede il corpo umano come un accumulatore di energia che in tempi recenti poco altro oltre la metafisica di Julius Evola ha saputo svelare.

La complessità della natura umana, dunque, non solo non è svelata ma è complicata una volta di più e in tutto ciò non può esserci che la sottomissione, l’arrendevolezza dell’essere umano di fronte a sé stesso.

Nella nostra vita quotidiana però, non siamo circondati, ahinoi, da oltre-uomini nietzschiani e dunque l’uomo e la donna collidono sempre e costantemente come sessi opposti, parti separate della medesima natura che è costretta a doversi riconciliare.

Dunque, e si torna al romanzo, e si torna al film, l’uomo emerge come essere dichiaratamente superiore ma nei fatti completamente sottomesso alla bellezza intrinseca della donna e di ciò che essa può dare all’uomo. La donna, per contro, non è che la statua della divinità che l’uomo deve idolatrare, non è che l’impersonificazione di ciò a cui l’uomo deve rendere servile omaggio. Ma, ecco l’ambiguità, l’uomo sta amando davvero la donna o soltanto sé stesso? Il servile omaggio è atto di amore altruistico oppure egoistica imposizione che andrebbe mitigata con iconoclastia?

Polanski qui si, sembra davvero prendere una posizione e lo fa per mezzo della Seigner la quale da donnetta servile, si trasforma in donna dominante per poi sbocciare nella mistica divinità tanto agognata dal protagonista. La donna, viene detto più volte durante l’opera, non deve essere l’oggetto dell’uomo, non deve essere il solo mezzo per la felicità di quest’ultimo. La donna, secondo Polanski/Thomas/Severin, deve essere adorata, in ginocchio.

Ma allora, a cosa erano serviti gli ammonimenti che nel 1851 Arthur Schopenhauer aveva lanciato contro le “dame” del proprio tempo? Le donne, scrive il filosofo tedesco,

«sono le costanti istigatrici delle ambizioni non nobili dell’uomo e quindi, in forza della medesima qualità, il loro predominio e la loro influenza determinante sono la rovina della società moderna.»

Venere In Pelliccia

La rovina della società moderna, fattore assolutamente esente dai ragionamenti di Sacher-Masoch e di Polanski, i quali, in definitiva, paiono invece accomunati dal solo desiderio di godere di personale appagamento, che esso derivi da una donnetta, da una donna o da una divinità.

Mastro Polanski, dal canto suo, può essere, almeno sulla superfice della pellicola, il dominatore assoluto della figura estetica della moglie, l’ammaliante Emmanuelle Seigner dallo sguardo felino e dal capezzolo facile. È lei la vera protagonista estetica della scena e questo grazie alla bravura e all’amore [dunque sottomesso?] del buon vecchio Roman, il quale s’impegna con tutto sé stesso per donare alla moglie un fascino che mai era emerso in passato con tanta forza strabordante. I costumi, simbolicamente cambiati in corso d’opera, il trucco, le acconciature. Tutto è perfetto nella definizione cangiante d’un personaggio memorabile quanto i più memorabili della filmografia polanskiana.

E, quasi altrettanto, così è per Mathieu Amalric, il Severin della situazione, la controparte del regista. Bravissimo, Mathieu, nel rifiutare la Venere, nel calarsi negli sporchi panni dell’attore, nel desiderare la sottomissione a colpi di pelliccia e fruste [qui solo psicologiche].

E tutto ciò, nel semplicissimo e ristretto spazio del palco d’un teatro di periferia ancora parzialmente addobbato con scarse e falliche scenografie d’un mediocre spettacolo non ancora smontato. Polanski, veterano della macchina da presa, maestro, perlomeno di cinema, eccelle nella sua arte.

A centodiciotto anni dall’invenzione del cinematografo, a un secolo di distanza dal teatro filmato del cinema delle origini, lui, il polacco filo-francese, scarnifica il cinema riducendolo a qualche taglio di montaggio e a un po’ di fari fuoriscena. La fluidità con il quale tutto scorre, tra l’altro già vista analogamente nel bel La Morte e la Fanciulla, suo film datato 1994, dà quasi l’impressione di un long take ripreso da più macchine da presa e solo per questo motivo montato in post-produzione.

Il teatro torna a brillare nel cinema, sottomettendolo o rimanendone sottomesso?

Non importa, ovviamente, cercare una risposta a tutto questo. Ciò che è, è, e per questo bisogna apprezzarlo. Senza troppe masturbazioni mentali l’uomo deve donarsi [anche in sottomissione incosciente] a ciò che lo circonda.

E così, ciò che era venuto, se ne va, nella più classica delle circolarità polanskiane.

Venere In Pelliccia

Venere In Pelliccia è un gioiello, una perla da ammirare in silenzio, senza soffermarsi a domandarsi se il cinema non dovrebbe essere prima immagine che parola, perché in fondo, malgrado la fortissima e nutritissima sceneggiatura, se questo film fosse muto non perderebbe il suo seducente fascino. E ora, che Polanski torni immediatamente dietro la macchina da presa.

9,5

Danilo Cardone



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